rivista di febbraio 2000


 

 

Dieci “no” o dieci “sì”


Luce dello Spiritoo Gesù
(Gianfranco Ravasi)

«Il Decalogo non è tanto un monotono rosario di divieti, è la costruizione di un profilo morale e religioso dell'uomo». Per comprenderne il significato profondo è indispensabile superare l'approccio catechistico e lasciarsi immergere nella potenza dei comandamenti.

Sulla vetta del Sinai Israele scopre la presenza misteriosa di Dio ma anche il suo desiderio di entrare in comunione con l’umanità attraverso la parola. E le prime parole che il Signore pronunzia diventeranno nei secoli le "dieci parole" per eccellenza, il Decalogo, la Legge suprema non solo di Israele ma anche della cristianità e di tanti "laici". E persino coloro che, come lo scrittore ateo francese André Gide nei Nutrimenti terreni (1897), reagiranno a queste lapidi incise nella storia perché "indolenziscono l'anima", non potranno non riconoscerne la potenza "lapidaria" e la forza ordinatrice o sovvertitrice.

Se Cristo al dottore della legge che gli chiede di indicargli la via della vita eterna replica con un deciso: "Tu conosci i comandamenti", Lutero in una delle "lezioni" del suo Catechismo insegnerà: "Non c'è specchio migliore in cui tu possa vedere quello di cui hai bisogno se non appunto i dieci comandamenti nei quali tu trovi ciò che ti manca e ciò che devi cercare".

Riprendiamo in mano questa pagina che la Bibbia ripete due volte (Esodo 20 e Deuteronomio 5) e che per molti è forse un pallido ricordo "catechistico" dell'adolescenza sul quale si è steso il velo dell'oblio e dell'infedeltà. Riprendiamola, non per scandirne moralisticamente o ingenuamente gli imperativi alla maniera del film I dieci comandamenti di De Mille (1956), ma piuttosto per ritrovarne l'etica perenne, religiosa e naturale, come ha fatto il regista "laico" polacco Kieslowski, autore degli splendidi dieci film Decalogo (1988).

Il primo comandamento non apre materialmente l'elenco dei dieci precetti ma ne è la chiave religiosa, tant'è vero che verrà chiamato dagli studiosi il comandamento "principe" o principale e il libro del Deuteronomio intesserà su di esso più di una meditazione. Basterebbe evocare lo Shema', l’"Ascolta Israele!", la professione di fede orante più cara all'ebreo di tutti i tempi, desunta dal Deuteronomio: "Ascolta, Israele! Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (cf 6, 4-5). Un comandamento talmente importante da avere ben tre formulazioni.

La prima è di tipo teologico: "Non ci siano per te altri dèi di fronte a me (o contro di me)" (cf Es 20, 3). Non è tanto la dichiarazione di un monoteismo teorico, per altro di ardua espressione nel linguaggio concreto e simbolico orientale. Si tratta, invece, di un monoteismo "affettivo", è l’"amare con tutto il cuore, anima e forze", indipendentemente dalla questione teorica monoteistica. È ancora Lutero a commentare nel suo Catechismo in modo pertinente: "Avere un solo Dio significa avere ciò a cui il cuore si abbandona totalmente".

Vi è poi una seconda formulazione che è di taglio "pastorale", ossia orientato verso scelte religiose concrete: è il precetto che spazza via gli idoli e le immagini del Signore Dio d'Israele capaci di generare idolatria o magia. Jahweh, diversamente dagli altri dèi che eleggevano statue e simboli a strumenti della propria presenza efficace accanto all'uomo, non è riducibile a nessuna figura, non è imprigionabile in uno spazio, non è manipolabile in un oggetto. Egli è solo voce, parola, presenza personale e vivente ma non oggettivabile e definibile.

La terza formulazione è di tipo cultico: "Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai" (Es 20, 5). I due verbi indicano atti liturgici: in Israele non è ammesso alcun sincretismo religioso, il Dio d'Israele è "geloso", come si afferma subito dopo, non vuole spartire con nessun altro l'amore e la "proprietà" del suo popolo. Atto d'accusa contro ogni idolatria, contro ogni degenerazione religiosa e contro ogni superstizione, il primo comandamento è l'affermazione di un legame personale esclusivo d'amore tra Dio e il popolo. I precetti che seguiranno, allora, saranno rispettati non soltanto perché iscritti nella coscienza naturale dell'uomo (anche se questa è una realtà morale affermata da molte culture) ma in quanto volontà rivelata del Signore. Vengono accolti in ragione del vincolo d'alleanza tra il Signore e Israele, per fede e amore e non per ragione e filosofia.

Ha spesso infastidito nella sequenza dei comandamenti decalogici il tono imperativo-negativo, da indice minaccioso puntato, e la proibizione incombente in quel continuo "Non fare", interrotto solo per i precetti del sabato e dell'onorare i genitori. In realtà, siamo in presenza di un espediente linguistico di matrice semitica volto a esaltare l'incisività "lapidaria" del comando e la sua totalità che non ammette scusanti, repliche ed eccezioni. Ma il senso è certamente anche positivo e creativo. Proviamo un po' a scoprirlo sotto il gelo dell'imperativo vietante.

Prendiamo il secondo comandamento: "Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio…" (cf Es 29, 7). Tutti pensano spontaneamente alla condanna della bestemmia, elemento però assente, nel modo in cui noi lo concepiamo, nell'antico Vicino Oriente. Infatti, è chiamato in causa il "nome", che per il semita è la stessa realtà di una persona, "nome" pronunziato "invano": ora, in ebraico, "invano" è shaw’, un termine del vocabolario idolatrico che indica la "vanità", il "vuoto" dell'idolo. Il comando, allora, colpisce ogni deformazione della realtà di Dio; per usare ancora un'immagine di Lutero, si condanna la simia Dei, la "scimmiottatura di Dio", il Dio Medusa o tappabuchi denunziato da Bonhoeffer, il teologo impiccato in un lager nazista. Il precetto diventa, quindi, un appello alla purezza della religione, al riconoscimento glorioso della grandezza e santità divina ("Sia santificato il tuo nome!").

Il sabato, terzo comandamento, è l'oasi nel tempo, dove si ritrova l'armonia della creazione e si entra nel "riposo" di Dio, cioè nell'eternità (Es 20, 8-11; Gen 2, 2-3) o dove si riscopre il dono della libertà religiosa e sociale (Dt 5, 12-15). Le preghiere e il culto sono una sorta di canale aperto nell'infinito e nell'eterno di Dio. È il tesoro dell'intimità offerto dal Signore a Israele, come afferma un testo rabbinico: "Dio disse a Mosè: Mosè, io posseggo nella mia tesoreria un dono prezioso che si chiama sabato. Lo voglio regalare solo a Israele".

Il quarto comandamento, l’"onorare il padre e la madre" (Es 20, 12) è il cardine della vita sociale, tant'è vero che è seguito da una benedizione ("perché si prolunghino i tuoi giorni…"). Nel padre e nella madre, che sono l'asse del clan familiare, si riassumono tutte le relazioni familiari, tribali e nazionali.

Il "non uccidere" del quinto comandamento (Es 20, 13), divenuto famoso per le sue diverse applicazioni, celebra in positivo il diritto alla vita, considerata realtà sacrale: "Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo" (Gen 9, 6). In negativo, come è noto, bisogna ricordare che non tutte le uccisioni sono vietate, nella rivelazione ancora progressiva e in sviluppo dell'Antico Testamento: si pensi alla legge del taglione in caso di omicidio, all'"anatema" (herem), cioè alla strage ritenuta un olocausto da offrire a Dio nella "guerra santa", alla pena capitale in alcuni casi regolamentati dalla legge biblica. Il verbo ebraico usato dal precetto riguarda ogni azione violenta su un soggetto privo di difesa, cioè l'assassinio vero e proprio.

Il "non commettere adulterio" — sesto comandamento (Es 20, 14) poi ampliato nella successiva tradizione — esalta il diritto al matrimonio, codificato minuziosamente secondo canoni sociali e storici spesso datati, presenti in molti altri passi legislativi biblici.

Il settimo comandamento (Es 20, 15) prima ancora che la tutela della proprietà tribale ha di mira la libertà personale: "non rubare" significa, in realtà, "non commettere un sequestro di persona" a scopo di schiavizzazione.

La verità in ambito processuale, fondamentale in civiltà a matrice orale, è l'oggetto dell'ottavo comandamento (Es 20, 16) che tutela il diritto all'onore contro ogni "falsa testimonianza" in un'aula giudiziaria. L'importanza di questa norma è confermata dal fatto che essa appare in capo al famoso codice babilonese di Hammurabi.

Il nono e il decimo comandamento (Es 20, 17) tutelano il diritto alla proprietà familiare: tra i beni (casa, schiavi, bue e asino) è inserita anche la donna considerata, in una struttura sociale di tipo maschilista, un tesoro tribale in quanto fattrice di figli e non un "tesoro" in senso affettivo. Il "non desiderare" del comandamento, spesso bersaglio di tante ironie, è più serio e realistico di quanto appaia a prima vista. In ebraico hamad non indica, infatti, un vago desiderio o un'attrazione istintiva, bensì una scelta radicale, una macchinazione per realizzare un progetto. È, quindi, una decisione della volontà da evitare, diversa dalla semplice emozione o tensione spontanea verso la donna o il possesso altrui.

In questa luce si deve intendere anche il monito di Gesù: "Chiunque guardi una donna per desiderarla, ha già commesso l'adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5, 28). Pronto a perdonare l'adultera per debolezza, Gesù è severo, al di là persino dell’esito del "desiderio", contro chi ha fermamente deciso nella sua coscienza di peccare.

Principi fondamentali, divisi in due tavole ideali, quella "verticale" verso Dio (dal primo al terzo comandamento), e quella "orizzontale" verso il prossimo (dal quarto in avanti), i dieci comandamenti sono certamente rivestiti della loro contingenza storica e sociale. Lo è tutta la Bibbia, se è vero — come abbiamo spesso ripetuto in passato — che essa è la narrazione di una storia umana al cui interno si annida la presenza del divino. Sotto il gravame negativo, del divieto minaccioso, dei condizionamenti socioculturali, del moralismo si manifesta tuttavia un progetto d'uomo che riconosce il mistero senza piegarlo, che rispetta il trascendente, che nell'esistenza sociale s’impegna per la vita, per il matrimonio, per la libertà, per la dignità umana e per la realizzazione di ogni persona coi beni ottenuti. Il Decalogo non è tanto un monotono rosario di divieti, è la costruzione di un profilo morale e religioso. I dieci comandamenti sono dieci "no" pronunziati in modo preliminare perché si trasformino poi in dieci "sì" nella storia personale e sociale dell'uomo.