«Il
Decalogo non è tanto un monotono rosario di divieti, è
la costruizione di un profilo morale e religioso dell'uomo».
Per comprenderne il significato profondo è indispensabile
superare l'approccio catechistico e lasciarsi immergere nella
potenza dei comandamenti.
Sulla
vetta del Sinai Israele scopre la presenza misteriosa di Dio ma
anche il suo desiderio di entrare in comunione con lumanità
attraverso la parola. E le prime parole che il Signore pronunzia
diventeranno nei secoli le "dieci parole" per eccellenza,
il Decalogo, la Legge suprema non solo di Israele ma anche della
cristianità e di tanti "laici". E persino coloro
che, come lo scrittore ateo francese André Gide nei Nutrimenti
terreni (1897), reagiranno a queste lapidi incise nella storia
perché "indolenziscono l'anima", non potranno
non riconoscerne la potenza "lapidaria" e la forza ordinatrice
o sovvertitrice.
Se
Cristo al dottore della legge che gli chiede di indicargli la
via della vita eterna replica con un deciso: "Tu conosci
i comandamenti", Lutero in una delle "lezioni"
del suo Catechismo insegnerà: "Non c'è
specchio migliore in cui tu possa vedere quello di cui hai bisogno
se non appunto i dieci comandamenti nei quali tu trovi ciò
che ti manca e ciò che devi cercare".
Riprendiamo
in mano questa pagina che la Bibbia ripete due volte (Esodo 20
e Deuteronomio 5) e che per molti è forse un pallido ricordo
"catechistico" dell'adolescenza sul quale si è
steso il velo dell'oblio e dell'infedeltà. Riprendiamola,
non per scandirne moralisticamente o ingenuamente gli imperativi
alla maniera del film I dieci comandamenti di De Mille
(1956), ma piuttosto per ritrovarne l'etica perenne, religiosa
e naturale, come ha fatto il regista "laico" polacco
Kieslowski, autore degli splendidi dieci film Decalogo
(1988).
Il
primo comandamento non apre materialmente l'elenco dei
dieci precetti ma ne è la chiave religiosa, tant'è
vero che verrà chiamato dagli studiosi il comandamento
"principe" o principale e il libro del Deuteronomio
intesserà su di esso più di una meditazione. Basterebbe
evocare lo Shema', l"Ascolta Israele!",
la professione di fede orante più cara all'ebreo di tutti
i tempi, desunta dal Deuteronomio: "Ascolta, Israele! Il
Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo.
Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima
e con tutte le forze" (cf 6, 4-5). Un comandamento talmente
importante da avere ben tre formulazioni.
La
prima è di tipo teologico: "Non ci siano per te altri
dèi di fronte a me (o contro di me)" (cf Es 20, 3).
Non è tanto la dichiarazione di un monoteismo teorico,
per altro di ardua espressione nel linguaggio concreto e simbolico
orientale. Si tratta, invece, di un monoteismo "affettivo",
è l"amare con tutto il cuore, anima e forze",
indipendentemente dalla questione teorica monoteistica. È
ancora Lutero a commentare nel suo Catechismo in modo pertinente:
"Avere un solo Dio significa avere ciò a cui il cuore
si abbandona totalmente".
Vi
è poi una seconda formulazione che è di taglio "pastorale",
ossia orientato verso scelte religiose concrete: è il precetto
che spazza via gli idoli e le immagini del Signore Dio d'Israele
capaci di generare idolatria o magia. Jahweh, diversamente
dagli altri dèi che eleggevano statue e simboli a strumenti
della propria presenza efficace accanto all'uomo, non è
riducibile a nessuna figura, non è imprigionabile in uno
spazio, non è manipolabile in un oggetto. Egli è
solo voce, parola, presenza personale e vivente ma non oggettivabile
e definibile.
La
terza formulazione è di tipo cultico: "Non ti prostrerai
davanti a loro e non li servirai" (Es 20, 5). I due verbi
indicano atti liturgici: in Israele non è ammesso alcun
sincretismo religioso, il Dio d'Israele è "geloso",
come si afferma subito dopo, non vuole spartire con nessun altro
l'amore e la "proprietà" del suo popolo. Atto
d'accusa contro ogni idolatria, contro ogni degenerazione religiosa
e contro ogni superstizione, il primo comandamento è l'affermazione
di un legame personale esclusivo d'amore tra Dio e il popolo.
I precetti che seguiranno, allora, saranno rispettati non soltanto
perché iscritti nella coscienza naturale dell'uomo (anche
se questa è una realtà morale affermata da molte
culture) ma in quanto volontà rivelata del Signore. Vengono
accolti in ragione del vincolo d'alleanza tra il Signore e Israele,
per fede e amore e non per ragione e filosofia.
Ha
spesso infastidito nella sequenza dei comandamenti decalogici
il tono imperativo-negativo, da indice minaccioso puntato, e la
proibizione incombente in quel continuo "Non fare",
interrotto solo per i precetti del sabato e dell'onorare i genitori.
In realtà, siamo in presenza di un espediente linguistico
di matrice semitica volto a esaltare l'incisività "lapidaria"
del comando e la sua totalità che non ammette scusanti,
repliche ed eccezioni. Ma il senso è certamente anche positivo
e creativo. Proviamo un po' a scoprirlo sotto il gelo dell'imperativo
vietante.
Prendiamo
il secondo comandamento: "Non pronunciare invano il
nome del Signore tuo Dio
" (cf Es 29, 7). Tutti pensano
spontaneamente alla condanna della bestemmia, elemento però
assente, nel modo in cui noi lo concepiamo, nell'antico Vicino
Oriente. Infatti, è chiamato in causa il "nome",
che per il semita è la stessa realtà di una persona,
"nome" pronunziato "invano": ora, in ebraico,
"invano" è shaw, un termine del
vocabolario idolatrico che indica la "vanità",
il "vuoto" dell'idolo. Il comando, allora, colpisce
ogni deformazione della realtà di Dio; per usare ancora
un'immagine di Lutero, si condanna la simia Dei,
la "scimmiottatura di Dio", il Dio Medusa o tappabuchi
denunziato da Bonhoeffer, il teologo impiccato in un lager nazista.
Il precetto diventa, quindi, un appello alla purezza della religione,
al riconoscimento glorioso della grandezza e santità divina
("Sia santificato il tuo nome!").
Il
sabato, terzo comandamento, è l'oasi nel tempo,
dove si ritrova l'armonia della creazione e si entra nel "riposo"
di Dio, cioè nell'eternità (Es 20, 8-11; Gen 2,
2-3) o dove si riscopre il dono della libertà religiosa
e sociale (Dt 5, 12-15). Le preghiere e il culto sono una sorta
di canale aperto nell'infinito e nell'eterno di Dio. È
il tesoro dell'intimità offerto dal Signore a Israele,
come afferma un testo rabbinico: "Dio disse a Mosè:
Mosè, io posseggo nella mia tesoreria un dono prezioso
che si chiama sabato. Lo voglio regalare solo a Israele".
Il
quarto comandamento, l"onorare il padre e la
madre" (Es 20, 12) è il cardine della vita sociale,
tant'è vero che è seguito da una benedizione ("perché
si prolunghino i tuoi giorni
"). Nel padre e nella madre,
che sono l'asse del clan familiare, si riassumono tutte le relazioni
familiari, tribali e nazionali.
Il
"non uccidere" del quinto comandamento (Es 20,
13), divenuto famoso per le sue diverse applicazioni, celebra
in positivo il diritto alla vita, considerata realtà sacrale:
"Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo il suo sangue
sarà sparso, perché a immagine di Dio Egli ha fatto
l'uomo" (Gen 9, 6). In negativo, come è noto, bisogna
ricordare che non tutte le uccisioni sono vietate, nella rivelazione
ancora progressiva e in sviluppo dell'Antico Testamento: si pensi
alla legge del taglione in caso di omicidio, all'"anatema"
(herem), cioè alla strage ritenuta un olocausto
da offrire a Dio nella "guerra santa", alla pena capitale
in alcuni casi regolamentati dalla legge biblica. Il verbo ebraico
usato dal precetto riguarda ogni azione violenta su un soggetto
privo di difesa, cioè l'assassinio vero e proprio.
Il
"non commettere adulterio" sesto comandamento
(Es 20, 14) poi ampliato nella successiva tradizione esalta
il diritto al matrimonio, codificato minuziosamente secondo canoni
sociali e storici spesso datati, presenti in molti altri passi
legislativi biblici.
Il
settimo comandamento (Es 20, 15) prima ancora che la tutela
della proprietà tribale ha di mira la libertà personale:
"non rubare" significa, in realtà, "non
commettere un sequestro di persona" a scopo di schiavizzazione.
La
verità in ambito processuale, fondamentale in civiltà
a matrice orale, è l'oggetto dell'ottavo comandamento
(Es 20, 16) che tutela il diritto all'onore contro ogni "falsa
testimonianza" in un'aula giudiziaria. L'importanza di questa
norma è confermata dal fatto che essa appare in capo al
famoso codice babilonese di Hammurabi.
Il
nono e il decimo comandamento (Es 20, 17) tutelano
il diritto alla proprietà familiare: tra i beni (casa,
schiavi, bue e asino) è inserita anche la donna considerata,
in una struttura sociale di tipo maschilista, un tesoro tribale
in quanto fattrice di figli e non un "tesoro" in senso
affettivo. Il "non desiderare" del comandamento, spesso
bersaglio di tante ironie, è più serio e realistico
di quanto appaia a prima vista. In ebraico hamad non indica,
infatti, un vago desiderio o un'attrazione istintiva, bensì
una scelta radicale, una macchinazione per realizzare un progetto.
È, quindi, una decisione della volontà da evitare,
diversa dalla semplice emozione o tensione spontanea verso la
donna o il possesso altrui.
In
questa luce si deve intendere anche il monito di Gesù:
"Chiunque guardi una donna per desiderarla, ha già
commesso l'adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5, 28). Pronto
a perdonare l'adultera per debolezza, Gesù è severo,
al di là persino dellesito del "desiderio",
contro chi ha fermamente deciso nella sua coscienza di peccare.
Principi
fondamentali, divisi in due tavole ideali, quella "verticale"
verso Dio (dal primo al terzo comandamento), e quella "orizzontale"
verso il prossimo (dal quarto in avanti), i dieci comandamenti
sono certamente rivestiti della loro contingenza storica e sociale.
Lo è tutta la Bibbia, se è vero come abbiamo
spesso ripetuto in passato che essa è la narrazione
di una storia umana al cui interno si annida la presenza del divino.
Sotto il gravame negativo, del divieto minaccioso, dei condizionamenti
socioculturali, del moralismo si manifesta tuttavia un progetto
d'uomo che riconosce il mistero senza piegarlo, che rispetta il
trascendente, che nell'esistenza sociale simpegna per la
vita, per il matrimonio, per la libertà, per la dignità
umana e per la realizzazione di ogni persona coi beni ottenuti.
Il Decalogo non è tanto un monotono rosario di divieti,
è la costruzione di un profilo morale e religioso. I dieci
comandamenti sono dieci "no" pronunziati in modo preliminare
perché si trasformino poi in dieci "sì"
nella storia personale e sociale dell'uomo.