Dio,
Presentandosi all'uomo, si rivela in un verbo - cioè in
una forma dinamica che sfugge le definizioni riduttive - per sottolineare
che il suo nome, quindi la sua essenza, non può essere
manovrato dall'uomo per i propri fini ed interessi.
Il tempio di Gerusalemme era bersaglio
delle frecce e dei proiettili delle legioni romane, il sangue
delle vittime sacrificali si mescolava a quello dei sacerdoti
uccisi, la resistenza ebraica era ormai disperata. Dopo tre mesi
di assedio il Tempio fu invaso: era l'autunno del 63 a.C., a Roma
era console M. Tullio Cicerone. In quel giorno Pompeo, anticipando
il gesto di Tito nella distruzione definitiva di Gerusalemme del
70 d.C., decise di penetrare nel Santissimo del Tempio, il luogo
valicabile solo dal Sommo Sacerdote una sola volta l'anno: tutto
il mondo ebraico a quella notizia si fermò con sgomento
e raccapriccio. Scrisse lo storico ebreo Giuseppe Flavio, contemporaneo
di Paolo: "Fra tante sciagure quella che colpì maggiormente
la nazione fu che il Tempio, fino a quel momento sottratto alla
vista, fu svelato agli stranieri" (La guerra giudaica I, 7, 6).
Sollevando il "veloÓ che celava questo tempietto interno,
il romano Pompeo, religiosamente grossolano, credeva di incontrare
qualche mostruoso simulacro orientale e invece, nota Tacito (Historiae
V, 9), trovò "una sede priva di alcuna effigie divina e
un santuario inutile". Il Dio vivente, il Signore del cielo e
della terra non aveva bisogno di un elemento magico per farsi
rappresentare nel dialogo col suo popolo. Un Dio senza status
e senza nome. Infatti ancor oggi l'ebreo, quando incontra le quattro
lettere sacre Jhwh del nome divino, non pronuncia che un termine
generico Adonai, Signore. Solo nella solennità
del Kippur, l'Espiazione, sulle labbra del Sommo Sacerdote, entrato
nel Santo dei Santi, affiorava la parola impronunciabile, mentre
all'esterno le trombe dei Leviti suonavano con forza per impedire
che neppure vagamente un orecchio umano potesse captare quel tetragramma
sacro pronunciato. Che significato ha, allora, quel termine Jahweh
con cui noi cristiani abbiamo letto le quattro consonanti sacre?
Leggiamo un brano dell'Esodo: "Mosè disse a Dio: "Gli
Israeliti mi chiederanno: Come si chiama il Dio che ti manda e
io che cosa risponderò loro?. Dio disse a Mosè:
Io sono colui che sono! Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi
ha mandato a voi [É] Questo è il mio nome per sempre; questo
è il titolo con cui sarò ricordato di generazione
in generazione” (cf 3, 13-15). In tutto il mondo semitico
il nome di una realtà è la realtà stessa,
è la sua presenza e la sua energia. La conoscenza del nome
di una persona comporta una specie di potere sull'essere di cui
si conosce così l'essenza. Nelle religioni magiche conquistare
il nome della divinità significava avere la possibilità
di manipolare e di nominare a proprio vantaggio la potenza di
Dio riducendolo così a un frammento in balìa dell'uomo.
L'interpretazione di questo brano dell'Esodo si rivela, allora,
estremamente rischiosa.
Un
nome pieno di significato
Dio, però, si rivela innanzitutto non in un sostantivo,
ma in un verbo, cioè in una forma dinamica e non statica
e inerte come avveniva per l'idolo. Ora, la frase "Io sono colui
che sono", legata al verbo "essereÓ, può essere interpretata
come una definizione di Dio. Le spiegazioni offerte sono state
molteplici: la filosofia cristiana vi ha intuito l'Essere perfettissimo
di Dio; altri vi hanno visto una polemica contro gli idoli, essendo
Dio "colui che veramente è, mentre gli dèi sono
nulla" (cf 1 Cor 10, 19); altri ancora hanno pensato a "colui
che è sempre lo stesso", cioè il fedele per eccellenza
alle promesse fatte a Israele; certe versioni protestanti, traducendo
"eterno", suggeriscono la resa "Colui che sempre è".
Ma da quanto abbiamo detto a proposito della mentalità
semitica dovremmo piuttosto optare per una risposta negativa da
parte di Dio. Il vero Dio si rifiuta di svelare l'inconoscibile
sua essenza. Come nella lotta notturna con Giacobbe (Gen 31, 30:
"Giacobbe gli chiese: "Dimmi il tuo nome!Ó Gli rispose: "Perché
mi chiedi il nome?"). Jahweh è, perciò, un termine
abbreviato che allude al grande incontro con Mosè al Sinai,
all'inizio della liberazione. Il nome di Dio, e quindi la sua
realtà personale, non può essere manovrato dall'uomo
nell'ambito dell'orizzonte terrestre secondo fini e interessi
umani. Tuttavia il nome di Jahweh non resta un vuoto appellativo:
esso viene riempito di significato perché rievoca l'intervento
di Dio nella storia di Israele in un momento cruciale. Come scrive
un esegeta, J. Plastaras, "a Mosè che domanda: "qual
è il tuo nome?" Dio risponde, ma la sua risposta asserisce
che l'uomo non può impadronirsi di Jahweh o avere un controllo
su di lui. Dio sarà presente a Israele con la sua forza
salvifica, non perché Israele avrà conosciuto il
suo nome segreto con le tecniche atte ad asservirlo, ma soltanto
perché nella sua misericordia Jahweh avrà voluto
rivelare la sua presenza a Israele". Con la rivelazione di un
nome che non è un nome in senso stretto si esalta, perciò,
da un lato, la vicinanza, l'intimità, l'amore di un Dio
personale che non è simile a un gorgo oscuro e tempestoso,
come lo sarà il Fato dei Greci. D'altro lato, però,
Dio rimane misterioso e trascendente. Significativa è un'altra
scena che ha ancora per protagonista Mosè nella stessa
cornice del Sinai e che è narrata dal medesimo libro dell'Esodo:
"Mosè disse al Signore: "Mostrami la tua Gloria!"
[É] Il Signore rispose: "Tu non potrai vedere il mio volto,
perché nessun uomo può vedermi e restar vivo. Tu
starai sopra una rupe; quando passerà la mia Gloria, io
ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò
con la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può
vedere" (cf 33, 18-23). La patetica domanda di Mosè resta
in pratica senza risposta: l'uomo non potrà mai penetrare
completamente la Gloria, cioè il mistero di quel Dio con
cui pure ha parlato, ha rischiato e vissuto. L'uomo Mosè
coglie solo un riflesso, un barbaglio dell'essenza divina («le
spalle»).
Un
Dio che si rivela
Ma dalla pagina dell'Esodo dedicata al nome Jahweh (cap. 3) possiamo
dedurre una riflessione di ordine generale e forse un po' difficile.
Sappiamo già che la Bibbia non è una raccolta di
tesi teologiche ineccepibili e astratte. é, invece, la storia
di un lento e progressivo svelarsi di Dio, passando attraverso
momenti intermedi di oscurità e fasi di illuminazione-rivelazione.
Pensiamo, a esempio, alle pagine violente che costellano le Scritture
e che riflettono la vicenda umana spesso tormentata e striata
dal sangue, dall'odio e dalla guerra. Anche per la rivelazione
della realtà di Dio si assiste a una specie di lunga lezione
che è offerta a Israele proprio dal Signore, passo per
passo, transitando attraverso forme primitive di religiosità.
Per giungere a una visione pura di Dio, Israele ha percorso un
lungo itinerario in cui Dio stesso è stato Padre e Maestro.
Dal politeismo mesopotamico i patriarchi sono stati condotti a
percepire un Dio collegato strettamente alle loro vicende e ai
loro santuari ("Dio dei nostri Padri", "Dio di Abramo, di
Isacco, di Giacobbe", "Dio di Betel" ecc.); era quello che tecnicamente
viene definito enoteismo. In questa forma d religiosità
si prescinde da eventuali divinità esteriori e straniere
per centrare la propria fede in un Dio vicino all'esperienza immediata,
quella vissuta da Israele col proprio Dio. Gli altri dèi,
perciò, non sono esclusi ma ignorati. Al Sinai emergerà
una più limpida scelta monoteistica («Non avrai altri
dèi fuori di me»). Ma è al roveto ardente
nel deserto di Madian che si apre lo Jahvismo, cioè la
scoperta di un Dio personale in dialogo con l'uomo. Un Dio-persona
e non più un essere misterioso, un Dio col quale dialogare,
un Dio da amare. Una nota finale. La rivelazione esodica di Dio
come "Io sono colui che sono" scheggia anche nei Vangeli con un
ulteriore segno di avvicinamento all'umanità, anzi con
la celebrazione di un vero e proprio abbraccio tra la divinità
e l'umanità. Infatti, Giovanni nel suo Vangelo usa la stessa
formula esodica «Io sono» per descrivere l'incarnazione
della Gloria divina nel Cristo. In Gesù si attua in forma
carnea la rivelazione piena e finale del divino. Giunta
lOra, cioè l'evento salvifico della morte
e della glorificazione, a quanti sono venuti per arrestarlo Gesù
domanda:« Chi cercate?. Gli risposero: Gesù,
il Nazareno. Disse loro Gesù: Io sono!
Appena disse Io sono, indietreggiarono e caddero a
terra». (cf Gv 18, 4.6).