Sinteticamente,
la prima lettera di S. Pietro apostolo indica nella virtù della fede la
forza che positivamente aiuta a resistere al Maligno. La fede difende il
discepolo, è davvero il suo scudo, come afferma Ef 6,16 («Tenete
sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti
i dardi infuocati del maligno»), poiché essa è potenza di Dio. È
bene rileggere quanto scrive 1Gv 5,4: «Tutto ciò che è nato da Dio
vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la
nostra fede». La forza della fede deriva dal fatto che in essa
agisce la potenza di Dio, il quale unico può dare salvezza e vittoria.
Se vogliamo delineare più in dettaglio il profilo della fede necessaria
a resistere agli assalti del Maligno, potremmo dire che essa deve avere
le caratteristiche della pazienza e del coraggio.
Il coraggio non è una qualità della
volontà, ma è la risposta personale alla parola divina, che ci apre il
mare, delinea il cammino, combatte per noi e accanto a noi. Il coraggio
è un momento intrinseco alla pazienza, la quale non è una rassegnata
sopportazione, ma è un trovare ogni volta ciò che rincuora l’animo.
Quanto subito dopo l’autore di 1Pt
scrive, affermando che i cristiani devono sapere che i loro fratelli
sparsi nel mondo subiscono lo stesso genere di prove, è un aspetto
importante delle virtù del coraggio e della pazienza, e cioè il rifiuto
di un’immaginazione solipsistica del mondo. Pensarci soli, senza
compagnia, quasi fossimo gli unici afflitti, porta ad una deriva
solipsistica e introversa
della
nostra esistenza, e favorisce quella incurvatura su se stessi, quel
cor incurvatum che toglie energia, perché occulta lo splendore della
vita battesimale. Sapere che gli altri soffrono come noi per il Cristo,
non è il ‘mal comune mezzo gaudio’, ma l’essere consapevoli di una
comunione, di essere parte di un Corpo, accomunati dal medesimo destino,
associati nelle stesse prove.
«La solidarietà e universalità delle
sofferenze cristiane offrono ai credenti una nuova chiave di lettura: si
tratta di quelle sofferenze che rientrano nel piano di Dio e che
costituiscono lo statuto normale dei cristiani nel mondo» (R. Fabris). È
questa forza, che deriva dalla comunione, ad infondere coraggio. Non è
semplicemente quel senso di misericordia, di compassione, che ci deriva
dal riconoscere le sofferenze universali, ma è il coraggio che ci viene
dal sapere che anche altri sono testimoni del Cristo, sono mossi dalla
medesima passione per il Regno, e hanno riconosciuto che davvero la
grazia del Signore vale più della vita.
Don Patrizio Rota Scalabrini, Anziano del RnS, è docente di
Esegesi e Teologia biblica presso la Facoltà Teologica dell’Italia
Settentrionale di Milano e pubblicista.
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