Il
Pentateuco, con le sue «pedantissime regole» e «sterminate
casistiche», a volte può risultare una lettura arida
e sconcertante, ma non dobbiamo dimenticare che è anzitutto
rivelazione. Oltre le norme umane, infatti, vi è
la incessante alleanza di Dio con l'uomo.
«Ricordati
del giorno in cui sei comparso davanti al Signore tuo Dio sull'Horeb
(Sinai), quando il Signore mi disse: Radunami il popolo e io farò
loro udire le mie parole... Voi vi avvicinaste fermandovi ai piedi
del monte. Ardeva, fiammeggiante fino al cielo, quel monte. Tenebre,
nubi, caligine lo coprivano. Il Signore vi parlò dal fuoco:
udivate il suono delle parole ma non vedevate nessuna figura.
Era solo una voce. Egli proclamò la sua alleanza, vi ordinò
di osservare i dieci comandamenti e li scrisse su due tavole di
pietra». Così il Deuteronomio (cf 4, 10-13), il quinto
libro della Bibbia, costruito su tre grandi omelie di Mosè
a commento della legge promulgata sul Sinai, riassume in modo
solenne e puntuale l'esperienza del Sinai, la culla natale di
Israele come qahal, cioè assemblea convocata da Dio stesso,
comunità religiosa e nazionale. È la grande guida
dell'esodo, Mosè, l'unico ammesso al dialogo solitario
e mistico col Signore sulla vetta del monte, a rivolgersi a Israele
rievocando l'evento vissuto al Sinai.
Limpero
della legge
Influenzato
da Freud, nel 1944 lo scrittore tedesco Thomas Mann (1875-1955)
pubblica un romanzo intitolato Das Gesetz, La Legge, un testo
suggestivo in cui espone una particolare interpretazione dell'apparato
di leggi che appesantisce la lettura immediata del Pentateuco
(chiamato appunto "Legge", anche se l'ebraico Torah rimanda più
a un insegnamento). Mosè, secondo il famoso scrittore tedesco,
è nato dall'unione illegale della figlia del faraone con
un ebreo. Nell'intimo cova un risentimento per il proprio stato
che si manifesta in modo primario nel temperamento collerico e
passionale, in modo sublimato nell'anelito verso l'incrollabile
comando, il divieto, lo spirituale, il puro, il santo, che
riscattino le pulsioni e le origini della sua esistenza. Così,
egli opta per il dio invisibile dei madianiti, il cui nome era
Jhwh, trasformandolo nel dio dei patriarchi ebrei. È questa
divinità che investe Mosè di una missione, quella
di mutare un'orda di primitivi in un popolo civile.
Ed egli attua il suo compito attraverso la legge. Il non
commettere adulterio sarà, in un certo senso, il
riscatto delle sue origini, ma non eviterà all'uomo Mosè
di avere un legame con una etiope, cioè una donna nera,
continuando il dramma della sua genesi. Nonostante ciò,
le leggi che gli imporrà in nome di Dio saranno universalmente
valide e, nella loro purezza, nasceranno dall' invisibilità,
cioè dalla trascendenza di Jhwh, il dio invisibile madianita
divenuto dio d'Israele.
Divino
e umano nella legge biblica
Al
di là della fantasia dell'assunto storico e dei condizionamenti
freudiani, nella parabola mosaica di Mann possiamo trovare due
elementi significativi per illustrare il sistema legale biblico.
Da un lato, c'è la ferma convinzione che le sue origini
siano rivelate. Per esempio, il cosiddetto codice dell'alleanza
promulgato idealmente al Sinai come protocollo dell'alleanza con
Jhwh (Es 20-23), inizia con questa asserzione: «Il Signore
disse a Mosè: Dirai agli israeliti: Avete visto che
vi ho parlato dal cielo...» (Es 20, 22). Eppure nelle
norme di diritto civile, penale, religioso e sociale contenute
in questo codice biblico gli esegeti hanno isolato contatti coi
remoti codici sumerici o babilonesi di Lipit-Ishtar e di Hammurabi,
con quello di egizio di Horemheb e con quelli ittiti, tutti affondanti
le loro radici nel diritto consuetudinario arcaico e secolare
dell'antico vicino Oriente. La qualità divina è
nel sigillo che viene apposto alle norme, è ancora una
volta la coscienza di essere in relazione con una divinità
che non assiste remota e impassibile nella sua imperiale e dorata
eternità alle vicende umane, ma che, al contrario, ha scelto
la via della storia, della polvere delle strade terrene, degli
usi e costumi umani per rivelarsi e per offrire la sua presenza
e la sua salvezza.
D'altro lato, però, le leggi non cessano di essere umane,
quindi caduche, variabili, minuziose, contingenti, problematiche,
adattate a contesti socio-culturali datati e circoscritti. Così,
se nel Levitico troviamo un passo talmente nobile da aver conquistato
anche Gesù di Nazareth, il celebre Non coverai nel
tuo cuore odio contro il tuo fratello. Non ti vendicherai e non
serberai rancore contro i figli del tuo popolo ma amerai il prossimo
tuo come te stesso (19, 17-18), poche pagine prima incontriamo
una sterminata casistica sulla cosiddetta lebbra, che in realtà
comprendeva tumori della pelle, pustole, ulcere, macchie, affezioni
del cuoio capelluto, esantemi, e persino la calvizie e una stupefacente
lebbra dei tessuti, del cuoio e delle case (capitoli 13-14).
Se il Deuteronomio ci offre una legge predicata, cioè accompagnata
da calorose motivazioni, da appelli all'amore, alla purezza della
fede, all'integrità della religione e del culto da praticare
in un unico tempio, onde evitare la degenerazione, è lo
stesso libro - di origine non sacerdotale e di forte afflato spirituale
- a regolamentare i parapetti delle terrazze (22, 18), i fiocchi
delle quattro estremità del mantello (22, 12), la cattura
degli uccellini (22, —-7), a impedire il travestitismo come pratica
idolatrica straniera (22, 5), a salvaguardarne gli alberi da frutto
del nemico durante gli assedi (20, 19-20) e così via.
Il
rischio del legalismo
A
istituzioni nobilissime, come quella dell'anno sabbatico (ogni
sette anni) e del Giubileo (ogni cinquant'anni), che miravano
a ristabilire una certa parità sociale fra i membri del
popolo (Lv 25; Dt 15), si accompagnano deliziose e per noi sorprendenti
norme alimentari concrete che elencano pesci, uccelli, animali
e persino insetti commestibili o no sulla base di arcaici tabù
folcloristici, ambientali e religiosi (Lv 11; Dt 14). A rubriche
rituali di alta spiritualità, come quelle riguardanti la
solennità del Kippur, il gran giorno dell'espiazione in
cui i peccati del popolo venivano confessati e simbolicamente
trasmessi a un capro espiatorio, inviato poi a morire nel deserto
(Lv 16), si associano in duplice copia pedantissime
regole riguardanti l'arca della presenza divina, cioè il
santuario mobile degli ebrei nel deserto, il suo arredo, i paramenti
sacerdotali, i sacrifici, le offerte, i materiali da utilizzare
e centinaia di minuziosi particolari rituali (Es 25-31 e 35-40).
La lettura di queste e di altre pagine può risultare arida
e sconcertante, anche se è una preziosa fonte per gli studiosi
di sociologia biblica, di antropologia culturale, di etnografia.
Soprattutto si consolida la visione di un impero della legge che
nello Stato ebraico nato dalle ceneri dell'esilio babilonese (VI
secolo a.C.), descritto nei libri di Esdra e Neemia, acquista
connotati teocratici e rivela un formalismo eccessivo, contro
il quale - come vedremo - reagiranno i profeti (e in seguito Gesù).
La Torah così cristallizzata diventava carta costituzionale
e codice civile e penale, più o meno come accade ora in
alcuni Paesi islamici; il sacro era come un manto che cercava
di coprire ogni aspetto della vita del popolo; ciò che
restava fuori era automaticamente considerato impuro e quindi
profano, condannato, non valido.
Se
l'impero dei sensi, come ha insegnato il lugubre film di Nagisha
Oshima (1976), è implacabile e mortuario fisicamente, l'impero
della legge può essere altrettanto inesorabile e mortale
a livello spirituale. Ma la legislazione biblica, pur lambita
da tale rischio, concretizzatosi nella pratica ossessiva di certe
tarde osservanze e nei movimenti integralisti e fondamentalismi,
esorcizza il pericolo di un sacralismo magico. È ciò
che dovremo dimostrare in una delle prossime tappe del nostro
itinerario che stiamo conducendo all'interno dell'Antico Testamento.
Un itinerario che, come si vede, comprende anche regioni simili
a steppe e deserti, perché la parola di Dio non ignora
anche gli spazi umani più ristretti, si incarna anche negli
ambiti più quotidiani e persino oscuri.