«"Si prese cura di lui" (Lc 10, 34b).
Cinque sole parole, che di colpo ci proiettano al cuore delle scelte dell'uomo.
Perché la più radicale alternativa nell'esistenza umana, la discriminante della
vita si colloca qui: vivere accolti in questo mondo da qualcuno, affidati alle
sue cure; oppure essere come uno scarto, ignorato come un rifiuto, affidato
solo a se stesso». Esordisce così, lo scrittore p. Ermes Ronchi, introducendo
il suo commento alla parabola del buon Samaritano. Per la terza volta sul palco
di una Convocazione nazionale del RnS, il Predicatore parla sul tema: "Si
prese cura di lui" (Lc 10, 34b). «Gesù, colui che ci guarisce dalle
malattie».
L'uomo ferito, il sacerdote e il levita, il
samaritano: p. Ronchi attualizza i protagonisti della parabola, definendola
«uno dei racconti più belli del mondo, in cui è condensato il dramma della
storia umana e insieme la sua soluzione».
«"Un uomo scendeva da Gerusalemme a
Gerico" (v. 30a) - continua il Poeta - e guai se ci fosse un aggettivo:
giusto o ingiusto, ricco o povero, nordafricano o anglosassone, può essere
perfino un disonesto, un brigante anche lui: è l'uomo, ogni uomo!», di fronte
al quale nessuno può dire: «io faccio un'altra strada, io non c'entro».
Per primo, è un sacerdote a incontrare quell'uomo
ferito. Sta scendendo dal tempio, e dunque ha «il profumo dell'incenso sulle
vesti, negli orecchi i salmi dei pellegrini. In un bozzolo di religione
sterile. E capisco che è detto a me, che non mi è lecito cantare il gregoriano
a Dio, e non prendermi cura delle piaghe dell'uomo. Che non puoi accogliere in
te una utopia bella e potente come quella di Gesù, e non seminarla nel terreno
ingombro di macerie della storia. Il sacerdote passa oltre, ma oltre l'uomo non
c'è nulla, tantomeno Dio». Dopo di lui, arriva il levita, che pure passa oltre.
«Forse pensa: "Perché Dio non interviene lui con la sua onnipotenza?
Perché dovrei farlo io?". Perché la risposta di Dio al dolore del mondo
sei tu».
Infine, irrompe sulla scena la compassione del buon
Samaritano, che sceglie di fermarsi, perché - spiega lo Scrittore - «la
compassione non è un istinto ma una conquista. Forse al levita fa un po'
ribrezzo quell'uomo che trema tra polvere e sangue, e le mosche del deserto
sono già arrivate sulle sue piaghe». P. Ronchi ricorda il sogno di Papa
Francesco: «una Chiesa "ospedale da campo", che come in tutti gli
ospedali incontra persone ferite, infezioni, sangue, sporco, rabbia, perfino
bestemmie, ma non giudica nessuno, e si prende cura di tutti».
"Vedere", "fermarsi",
"toccare": i verbi del buon Samaritano, i verbi di Gesù, «che ogni
volta che si commuove, tocca e guarisce». P. Ronchi ripercorre i brani
evangelici in cui Gesù «prova dolore davanti al dolore», e individua le
malattie da cui i suoi gesti guariscono: la sclerocardia, la durezza di cuore
che il Maestro combatte con la tenerezza; la piccolezza del cuore; la malattia
delle maschere, indossate a causa della paura del giudizio degli altri, del
nostro e di Dio: «Per liberarci dalla paura dei giudizi - spiega - ricordiamo
che non siamo al mondo per essere perfetti, ma per essere veri. Non siamo
cristiani per essere immacolati, ma incamminati. Noi insieme agli altri».
Concludendo, lo Scrittore sottolinea la
straordinaria eredità di Gesù: «"Nel mio nome imporranno le mani ai malati
e questi guariranno (cf Mc 16, 18)". Ma il Vangelo - specifica -
letteralmente non dice che "guariranno", ma che "ne avranno del
bene" (kalon exousin). Capacità
straordinaria della fede: far stare bene gli altri, dare un luogo di protezione
e di riparo alle persone, ascoltarle, consolarle, incoraggiarle, prendersi cura
della loro felicità, guarirle... Al centro della parabola un uomo - conclude p.
Ronchi -, e un verbo: Tu "amerai". Fai così, e troverai la vita».
Lucia Romiti