Eravamo una bella famiglia io, mio marito Alberto, i
nostri figli Tommaso e Matteo, e poi i miei splendidi genitori e il resto della
famiglia: un cerchio così grande da non sentirci mai soli. Un sorriso, un
abbraccio, una carezza era per tutti, senza problemi, con la serenità e la leggerezza
che dà senso ogni giorno alle nostre vite.
Per me e Alberto stava arrivando una nuova fase,
pensavamo di lasciare Roma per trasferirci a vivere a Pescara del Tronto (AP),
nella nostra nuova casa. Avevamo scelto la nostra unione come centro del mondo;
pensavamo a quanto sarebbe stato bello raccontare tra qualche anno una storia
di paese ai nipoti. Volevamo migliorare la nostra vita, le nostre giornate, e
poi l’idea piaceva ai nostri figli. Tutto era perfetto. I miei sogni potevano
diventare realtà… Ma è arrivato “lui”, il terremoto, all’improvviso come il
vento, nel cuore della notte a rubare le mie certezze, i miei affetti più cari
e in parte il mio futuro. Sono uscita ferita ma viva dalle macerie della casa che
ho amato tanto, forse troppo: quel 24 agosto ho perso il mio Tommaso, mio
marito Alberto, mia madre Santa, mio padre Corrado e mio cognato Vito. In un
attimo niente era più come prima.
Per molti il tempo si è fermato quella notte: la
prospettiva delle cose è mutata, la tremenda sensazione di aver perso ciò che
ci caratterizza come individui si è subito impadronita dei miei pensieri. Mi
sono detta: “Non ho io le soluzioni per uscire dall’incubo, per capire cosa
fare, cosa pensare, come rialzarmi”. Quando il mondo crolla e resti letteralmente
sepolta tra polvere e macerie, comprendi in un attimo di non essere più la
persona che eri. Ti svegli in un letto d’ospedale tra camici bianchi e verdi,
vedi il bianco avorio della camicia di don Giovanni, il Vescovo di Ascoli e del
suo segretario don Alberto, lo scuro dei sai dei frati. In quelle ore la tua “famiglia”
si allarga e ti aggrappi a quei colori. Ho cercato negli occhi di chi mi ha
sostenuto gli affetti e l’amore che avevo perso e li ho trovati. La mia estate
quest’anno è finita alle 3.36 del mattino di quella notte: 142 secondi di
devastazione e poi solo polvere e macerie e il dolore che ti schiaccia.
È notte per me, ma notte davvero. Non mi sono chiesta
e non voglio chiedermi oggi “perché”, non servirebbe a nulla. La rabbia non mi
ha penetrato l’anima e non devo farlo domani, quando sarò sola con questa
sofferenza infinita, perché l’amore non può essere annientato neppure da un
terremoto. Il nuovo può nascere solo se al vecchio è permesso di terminare il
proprio percorso nella maniera giusta; è questo il ciclo sacro della vita. A me
non è stato concesso, non ho potuto in quei 142 secondi maledetti guardare
verso l’Alto e chiedere aiuto, ma so, perché lo sento, che mi sarà consentito
generare da questa tragedia amore, sì, amore per chi è rimasto ad accarezzarmi
nei momenti più difficili, amore per don Giovanni, don Alberto e per i frati
che mi hanno accolto nella loro famiglia allargata senza abbandonarmi un
attimo; ma amore anche per chi non era presente perché incapace in quei momenti
di dare affetto. La vita di Tommaso, Alberto, Santa, Corrado e Vito e di tanti
altri è ancora lì, in quella terra a Pescara del Tronto: non muore mai un
sentimento se è vero, si trasforma, certo, ma l’amore c’è e ci sarà sempre. Ora,
quando le certezze vengono meno, la salvezza è solo su quella zattera che
dobbiamo chiamare solidarietà e che ci insegna come ricominciare a vivere. Grazie
a don Giovanni per essere diventato il mio nuovo papà; grazie a don Alberto e
ai frati che ogni giorno si preoccupano per me. Grazie alle persone che con il
loro amore non mi hanno lasciata sola. Vi abbraccio e vi dico ancora grazie.