Dalla manifestazione dello Spirito alla sua
“dimostrazione”, dalla dimensione soggettiva dell’esperienza dello Spirito
Santo a quella comunitaria, tangibile, condivisa, riconoscibile. Mons. Antonio
Pitta, docente di Esegesi del Nuovo Testamento presso la Pontificia Università
Lateranense di Roma, interviene nella seconda giornata della 40ª Conferenza
nazionale animatori su un tema fondante la vita comunitaria – “L’effusione
dello Spirito: ‘La manifestazione (dimostrazione) dello Spirito e della sua
potenza’ (cf 1 Cor 2, 4b)” – e che si pone come trait d’union con quanto approfondito un anno fa, alla 39ª
Conferenza animatori. Allora il tema generale era la preghiera, nucleo da cui
scaturiscono la vita comunitaria e il cammino comunitario carismatico, che
mons. Pitta delinea in un percorso declinato in quattro tappe: l’esperienza
dello Spirito Santo, l’esperienza del kerygma, l’esperienza della conversione,
l’esperienza del discepolato.
«La Lettera ai Corinzi è definita “Lettera dello
Spirito” perché attraversata integralmente dallo Spirito di Dio – ha esordito
mons. Pitta –, ed è stata consegnata dall’Apostolo alla Chiesa che ha perennemente
“bisogno” dello Spirito per essere edificata. Lo Spirito, anzitutto, conduce a
riconoscere come Signore il Crocifisso:
la salvezza non arriva per mezzo di segni prodigiosi, come invece era attesa
nell’ambiente giudaico del tempo greco-romano. E, sebbene anche i miracoli
siano necessari, per Paolo la fede non può prescindere da Cristo crocifisso
riconosciuto come tale con la potenza dello Spirito». È la croce a donare la consapevolezza
della propria vocazione, della
chiamata a essere cristiano, una elezione che «arriva tra gli ultimi per
raggiungere i primi e non il contrario: l’elezione è segno di unità e non di
divisione. Dallo Spirito all’elezione e non dall’elezione allo Spirito!». Terzo
aspetto dell’esperienza dello Spirito è l’azione
carismatica, manifestazione costante dello Spirito di Cristo che dona
carismi, ministeri e attuazioni secondo la sua libera scelta (cf Cor 12, 4-7).
L’esperienza dello Spirito conduce all’esperienza
del kerygma: «Se lo Spirito pone i credenti in relazione con la morte di
Cristo, li apre anche al rapporto con la sua risurrezione… poiché lo Spirito permette di confessare che il Crocifisso
è il Signore, lo stesso Spirito apre alla fede nella risurrezione. “È risorto”
è l’unico verbo al presente, dopo una sequenza di verbi passati: fu crocefisso,
fu sepolto, apparve. “È risorto” perché la forza di questo annuncio ha un
riverbero nel presente, “Gesù è vivo” è una verità che non appartiene al
passato ma alla vita della Chiesa».
Gli altri due aspetti sull’esperienza del kerygma
riguardano il rapporto con la vita
sacramentale e il rischio delle divisioni
partitiche, come si verifica nella comunità di Corinto. «Attraverso l’esperienza
del kerygma, lo Spirito ci porta a vivere i sacramenti in maniera comunitaria,
non individuale, in espressione relazionale con Cristo e con la comunità
ecclesiale». È l’unità l’esperienza
di arrivo del kerygma: «L’unità non è uniformismo, l’unità si esprime
attraverso la diversità dei carismi, dei ministeri, perché uno solo è lo
Spirito».
L’esperienza dello Spirito produce una profonda
esperienza della conversione: «L’istanza
della conversione o del cambiamento di mentalità percorre la Lettera ai Corinzi
e si enuclea sulla relazione con Cristo, con lo Spirito e con il proprio corpo.
Il rapporto con Cristo esclude anzitutto relazioni segnate da immoralità
sessuale. Ci dice san Paolo: “Non sapete che chi si unisce alla prostituta
forma con essa un corpo solo? I due – è detto – diventeranno una carne sola” (1
Cor 6, 16-17)». Corinto è anche la città dei culti misterici e, sottolinea
mons. Pitta citando san Paolo, «Nessuno può dire “Gesù è il Signore” se non per
mezzo dello Spirito Santo» (cf 1 Cor 12, 3). Contro una visione strumentale del
proprio corpo, risalta la visione paolina del corpo “tempio dello Spirito”».
L’esperienza dello Spirito è anche esperienza del discepolato o della mimesi di Cristo prodotta nella vita dei credenti. L’imitazione di
Cristo, secondo l’Apostolo, passa attraverso «l’esemplarità umana, che non è
solo di chi ha conosciuto e ascoltato la viva voce di Cristo. Come nasce l’imitazione:
dalla volontà, dall’autorità? Il processo imitativo si realizza non per la via
dell’autorità bensì per quella dell’intimità, fonte di un naturale processo
imitativo fra persone, in cui quanto le accomuna si declina con le peculiarità
e le originalità di ciascuno». Come si può imitare Cristo? «Il modello irraggiungibile
di Cristo è reso percorribile attraverso il prossimo, colui che incarna la
croce di Cristo – gli ammalati, i perseguitati, i poveri, i sofferenti –, che
si fa testimone e modello da imitare. L’esperienza del discepolato è, allora, esperienza di imitazione nelle avversità: l’imitazione
avviene soprattutto quando si è nella sofferenza, perché è difficile imitare
Cristo e prenderne la croce quando non si vive una situazione di prova».
Lo Spirito trasforma i credenti in testimoni del
Risorto fino all’effusione della vita. «Il nostro è il tempo dell’attesa: l’esperienza
dello Spirito Santo, del kerygma, della conversione, del discepolato producono
in noi questa invocazione – Maràna tha –
che, nel momento stesso in cui si pone come invocazione dello Spirito e della
Sposa – “Vieni, Signore Gesù” – è essa stessa risposta e promessa dello Sposo: “Vengo,
vengo presto”.
Elsa De Simone