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La “dimostrazione” dello Spirito 
Relazione mons. Antonio Pitta
mons. Antonio Pitta 2016 - Clicca per ingrandire...

Dalla manifestazione dello Spirito alla sua “dimostrazione”, dalla dimensione soggettiva dell’esperienza dello Spirito Santo a quella comunitaria, tangibile, condivisa, riconoscibile. Mons. Antonio Pitta, docente di Esegesi del Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Lateranense di Roma, interviene nella seconda giornata della 40ª Conferenza nazionale animatori su un tema fondante la vita comunitaria – “L’effusione dello Spirito: ‘La manifestazione (dimostrazione) dello Spirito e della sua potenza’ (cf 1 Cor 2, 4b)” – e che si pone come trait d’union con quanto approfondito un anno fa, alla 39ª Conferenza animatori. Allora il tema generale era la preghiera, nucleo da cui scaturiscono la vita comunitaria e il cammino comunitario carismatico, che mons. Pitta delinea in un percorso declinato in quattro tappe: l’esperienza dello Spirito Santo, l’esperienza del kerygma, l’esperienza della conversione, l’esperienza del discepolato.

«La Lettera ai Corinzi è definita “Lettera dello Spirito” perché attraversata integralmente dallo Spirito di Dio – ha esordito mons. Pitta –, ed è stata consegnata dall’Apostolo alla Chiesa che ha perennemente “bisogno” dello Spirito per essere edificata. Lo Spirito, anzitutto, conduce a riconoscere come Signore il Crocifisso: la salvezza non arriva per mezzo di segni prodigiosi, come invece era attesa nell’ambiente giudaico del tempo greco-romano. E, sebbene anche i miracoli siano necessari, per Paolo la fede non può prescindere da Cristo crocifisso riconosciuto come tale con la potenza dello Spirito». È la croce a donare la consapevolezza della propria vocazione, della chiamata a essere cristiano, una elezione che «arriva tra gli ultimi per raggiungere i primi e non il contrario: l’elezione è segno di unità e non di divisione. Dallo Spirito all’elezione e non dall’elezione allo Spirito!». Terzo aspetto dell’esperienza dello Spirito è l’azione carismatica, manifestazione costante dello Spirito di Cristo che dona carismi, ministeri e attuazioni secondo la sua libera scelta (cf Cor 12, 4-7).

L’esperienza dello Spirito conduce all’esperienza del kerygma: «Se lo Spirito pone i credenti in relazione con la morte di Cristo, li apre anche al rapporto con la sua risurrezione… poiché lo Spirito permette di confessare che il Crocifisso è il Signore, lo stesso Spirito apre alla fede nella risurrezione. “È risorto” è l’unico verbo al presente, dopo una sequenza di verbi passati: fu crocefisso, fu sepolto, apparve. “È risorto” perché la forza di questo annuncio ha un riverbero nel presente, “Gesù è vivo” è una verità che non appartiene al passato ma alla vita della Chiesa».

Gli altri due aspetti sull’esperienza del kerygma riguardano il rapporto con la vita sacramentale e il rischio delle divisioni partitiche, come si verifica nella comunità di Corinto. «Attraverso l’esperienza del kerygma, lo Spirito ci porta a vivere i sacramenti in maniera comunitaria, non individuale, in espressione relazionale con Cristo e con la comunità ecclesiale». È l’unità l’esperienza di arrivo del kerygma: «L’unità non è uniformismo, l’unità si esprime attraverso la diversità dei carismi, dei ministeri, perché uno solo è lo Spirito».

L’esperienza dello Spirito produce una profonda esperienza della conversione: «L’istanza della conversione o del cambiamento di mentalità percorre la Lettera ai Corinzi e si enuclea sulla relazione con Cristo, con lo Spirito e con il proprio corpo. Il rapporto con Cristo esclude anzitutto relazioni segnate da immoralità sessuale. Ci dice san Paolo: “Non sapete che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due – è detto – diventeranno una carne sola” (1 Cor 6, 16-17)». Corinto è anche la città dei culti misterici e, sottolinea mons. Pitta citando san Paolo, «Nessuno può dire “Gesù è il Signore” se non per mezzo dello Spirito Santo» (cf 1 Cor 12, 3). Contro una visione strumentale del proprio corpo, risalta la visione paolina del corpo “tempio dello Spirito”».

L’esperienza dello Spirito è anche esperienza del discepolato o della mimesi di Cristo prodotta nella vita dei credenti. L’imitazione di Cristo, secondo l’Apostolo, passa attraverso «l’esemplarità umana, che non è solo di chi ha conosciuto e ascoltato la viva voce di Cristo. Come nasce l’imitazione: dalla volontà, dall’autorità? Il processo imitativo si realizza non per la via dell’autorità bensì per quella dell’intimità, fonte di un naturale processo imitativo fra persone, in cui quanto le accomuna si declina con le peculiarità e le originalità di ciascuno». Come si può imitare Cristo? «Il modello irraggiungibile di Cristo è reso percorribile attraverso il prossimo, colui che incarna la croce di Cristo – gli ammalati, i perseguitati, i poveri, i sofferenti –, che si fa testimone e modello da imitare. L’esperienza del discepolato è, allora, esperienza di imitazione nelle avversità: l’imitazione avviene soprattutto quando si è nella sofferenza, perché è difficile imitare Cristo e prenderne la croce quando non si vive una situazione di prova».

Lo Spirito trasforma i credenti in testimoni del Risorto fino all’effusione della vita. «Il nostro è il tempo dell’attesa: l’esperienza dello Spirito Santo, del kerygma, della conversione, del discepolato producono in noi questa invocazione – Maràna tha – che, nel momento stesso in cui si pone come invocazione dello Spirito e della Sposa – “Vieni, Signore Gesù” – è essa stessa risposta e promessa dello Sposo: “Vengo, vengo presto”. 

Elsa De Simone

(30.10.2016)