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Intervento di Salvatore Martinez a Philadelphia 
VIII Incontro Mondiale delle Famiglie
VIII Incontro Mondiale delle Famiglie - Clicca per ingrandire...

Di seguito pubblichiamo il testo integrale dell'intervento di Salvatore Martinez, Presidente del RnS e della Fondazione Vaticana "Centro Internazionale Famiglia di Nazareth", pronunciato nella sessione delle ore 11.45 del Congresso dell'VIII Incontro Mondiale delle Famiglie di Philadelphia, sul tema "La via della croce, la via del cuore: la sofferenza e la famiglia". Nella sessione in lingua italiana, moderata dal card. Willem Jacobus (Wim) Eijk, della diocesi di Utrecht, è intervenuto anche mons. Fouad Twal, Patriarca di Gerusalemme dei Latini. Tra i partecipanti, l'intera delegazione italiana del Rinnovamento nello Spirito Santo. 

 

 

 

 

 

The Way of the Cross, the Way of the Heart: Suffering and the Family

La Via della Croce, la Via del Cuore: la Sofferenza e la Famiglia

 

Dott. Salvatore Martinez

Presidente del Rinnovamento nello Spirito Santo

Presidente della Fondazione Vaticana "Centro Internazionale Famiglia di Nazareth"

 

 

La sapiente cattedra del dolore

La nostra esistenza umana include, sempre, una duplice condizione: la conoscenza del soffrire e, al contempo, un inesauribile anelito di gioia. La Scrittura definisce Gesù «l'uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53, 3).

È proprio dal soffrire di Cristo che deriva l'arte della misericordia e della compassione cristiana, quella meravigliosa scuola di umanità che agli uomini è data l'opportunità di esperimentare in modo speciale proprio nella famiglia. Come è insopportabile la vita quando un uomo si vede condannato ad una mortale solitudine! Per questo afferma il Qoelet: «Guai a chi resta solo» (4, 10), facendo eco a ciò che sin dalla creazione Dio dice: «Non è bene che l'uomo sia solo» (Gen 2, 18).

Niente più della sofferenza appartiene al mistero dell'uomo, al mistero della vera vita, perché la sofferenza è la via che più di altre "svela pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione" (Gaudium et spes, n. 22).

Un celebre scrittore cattolico francese, G. Bernanos, nel suo libro La gioia, afferma: "Chi cerca la verità dell'uomo deve farsi padrone del suo dolore". Parafrasando questa espressione possiamo dire: "Chi cerca la verità della famiglia deve farsi padrone delle sofferenze che la animano". 

Alla scuola della sofferenza l'uomo è e sempre rimarrà un apprendista. Eppure nessuno conosce veramente se stesso, né saprà mai, fino in fondo, farsi padre, madre, figlio, fratello o sorella, cioè "prossimo" nell'amore familiare, finché non ha sofferto e non riesce a dare un valore salvifico alla sofferenza.

Niente, più del dolore umanizza e risveglia l'uomo dal sonno spirituale in cui spesso si confina. Niente più del dolore apre le porte al divino, perché svela all'uomo che l'ultima parola di Cristo non è morte, ma vita.

Al tema della "fragilità" della famiglia dinanzi alle sofferenze e alle ferite della vita, Papa Francesco ha dedicato quattro catechesi nel corso delle Udienze generali del mercoledì (10 giugno "Famiglia e Malattia"; 17 giugno "Famiglia e Lutto"; 24 giugno "Famiglia e Ferite I"; 5 agosto "Famiglia e Ferite II").

Così si esprimeva nella prima catechesi: «Di fronte alla malattia, anche in famiglia sorgono difficoltà, a causa della debolezza umana. Ma, in genere, il tempo della malattia fa crescere la forza dei legami familiari. E penso a quanto è importante educare i figli fin da piccoli alla solidarietà nel tempo della malattia. Un'educazione che tiene al riparo dalla sensibilità per la malattia umana, inaridisce il cuore. E fa sì che i ragazzi siano "anestetizzati" verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la sofferenza e di vivere l'esperienza del limite» (Udienza generale, 10 giugno 2015).

 

VIII+Incontro+Mondiale+delle+Famiglie

Nella sofferenza è l'esistere e il resistere dell'uomo

In ogni famiglia c'è una permanente memoria del vivere proprio nel dolore che soffriamo o a cui assistiamo. Una memoria che è fatta di storie, di sogni infranti, di ricordi collettivi, di piaceri, di paure, di persone care, di miserie, di immagini, di incontri, di scontri, di offese, di abbandoni, di ritorni. Nella sofferenza c'è tutta la grammatica della nostra vita, la più concreta, credibile e attraente liturgia che si celebra ogni giorno nella "piccola chiesa domestica" che è la famiglia.

È un luogo sacro la sofferenza; un luogo che bisognerebbe calpestare a piedi scalzi, come Mosè dinanzi al miracolo del Roveto Ardente, l'amore di Dio che brucia senza consumarsi. Un luogo sacro, da accostare con timore e stupore, dinanzi al quale nessuno può dirsi inospitale. Certo, nessuno, vedendo una malattia la preferisce o la desidera; ma non per questo può ignorarla, giudicarla o rigettarla come una maledizione da cui tenersi lontano. Chi elude la propria responsabilità dinanzi al male, proprio o altrui, è il vero inguaribile malato.

La sofferenza denota il nostro senso di attaccamento alla vita, il bisogno dell'altro, l'insopprimibile anelito di felicità che è nell'uomo; ed è già anticipo di eternità, come ci ha insegnato Gesù nelle Beatitudini.

Parafrasando un'espressione di un celebre ateo comunista convertito al Cristianesimo, Andreè Frossard, che è anche il titolo di un suo celebre libro,- "Dio esiste, io l'ho incontrato" - noi possiamo affermare: "Il male esiste, noi ne facciamo esperienza ogni giorno".

Scandalo è il male, ma ancora più scandalosa è una vita incurante dei mali che portano l'uomo, una famiglia a soffrire senza speranza, a soffrire nella sola prospettiva della morte senza consolazione, senza guarigione, senza liberazione dal male, senza vittoria di Cristo sulla morte, senza l'aspettativa della risurrezione e della vita eterna

 

Per mezzo della croce la nostra glorificazione

Nel nostro tempo, come in ogni secolo, molti continuano a rifiutare la salvezza di Gesù perché non accettano la sofferenza.

Non si può meritare la salvezza senza sofferenza, senza rimanere uniti a Gesù nelle prove che ci affliggono. Solo così la luce, Cristo, «trasforma davanti a noi le tenebre in luce» (Is 42, 16) e redime i nostri mali. Dice infatti il Signore: «Al tempo della misericordia ti ho ascoltato, nel giorno della salvezza ti ho aiutato» (Is 49, 8a).

Chi si adagia sulla croce di Gesù si unisce alla Sua sofferenza. Non è un disgraziato, un maledetto, un rinnegato come vorrebbe il mondo. È, piuttosto un salvato!

Il celebre prologo giovanneo «Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14), risuona per noi oggi così: «Il Verbo si è fatto croce ed è venuto a morire in mezzo a noi».

Ascoltiamo un brano apologetico sulla croce, di grande suggestione, tratto dalla Tradizione dei Padri Orientali: "Nessuno si vergogni dei segni sacri e venerabili della nostra salvezza, cioè della croce. La croce è la somma e il vertice dei nostri beni. Tutto ciò che ci riguarda si compie e si consuma attraverso di essa. È la croce infatti che ha salvato e convertito tutto il mondo; è la croce che ha bandito l'errore; è la croce che ha ristabilito la verità; è ancora la croce che ha fatto della terra cielo, e degli uomini angeli. Grazie alla croce i demoni hanno cessato di essere temibili e sono divenuti disprezzabili; la morte non è più morte, ma sonno dal quale ci sveglieremo in cielo" (Crisostomo Giovanni, Commento al Vangelo di san Matteo, 54,4-5).

La croce, dunque, non è il segno che Dio rinnega i Suoi figli. La croce non è la diminuzione del Suo amore. La croce non è privazione della promessa di Gesù di una gioia piena sulla terra. La croce ci fa vedere chiaramente "chi" siamo e "cosa" possiamo diventare, se lasciamo morire in noi tutto ciò che non glorifica il Padre.

Chi non sa stare dinanzi alla propria croce, non potrà neanche portarla, perché nessun cristiano può definirsi tale e pensare di non «portare la propria croce e seguirlo» (cf Mt 16, 24). Ma chi non sa stare ai piedi della croce dei fratelli, non è neanche degno di Gesù.

La Croce non è soltanto il segno della nostra vita in Dio e della nostra salvezza, ma è anche la testimone verace e muta dei dolori degli uomini e, allo stesso tempo, l'espressione unica e preziosa di tutte le loro speranze, specie dei piccoli e degli ultimi della terra, coloro che sembrano sperare senza speranza.

San Giovanni Maria Vianney, più noto come "il Curato d'Ars", ben ci aiuta ad accettare il significato di questo martirio del cuore: "La Croce è il libro più sapiente che si possa leggere. Coloro che non conoscono questo libro sono ignoranti, anche se conoscono tutti gli altri libri. Quanto più si è alla sua scuola, tanto più si vuole rimanervi. La paura della Croce è la nostra grande Croce; tutto va bene se portiamo bene la nostra Croce: fuggire la Croce è volerne essere oppresso; accettarla è non sentirne l'amarezza. Chi ama Dio è felice di poter soffrire per amore di colui che ha accettato di soffrire per noi" (in "Scritti scelti" a cura di Gérard Rossé).

Non può essere eliminata, la croce, può essere glorificata, perché ci procura, in Gesù, la nostra glorificazione.

 

VIII+Incontro+Mondiale+delle+Famiglie

La croce, svelamento di un cuore amante che rischia tutto

"Cristo ha vinto perché ha rischiato tutto e ha mostrato che nulla è più forte dell'amore del prossimo", annotava nel suo diario, nel lager nazista dove sarà impiccato, il teologo Dietrich Bonhoeffer.

La croce di Gesù mette a nudo la nostra fede; la croce spoglia la fede di ogni pretesa fuori da Cristo e riveste la fede della carne gloriosa di Cristo. Niente più della croce rende incarnata la nostra fede; niente, come il legno della croce piantato sulla roccia, rende più stabile e sicura la nostra fede. Non è vera fede se non libera profondamente, pienamente, la nostra libertà umana, come nell'estremo gesto d'amore del Crocifisso.

Quanti attentati alla conoscenza di Cristo; quanto svilimento di senso e di prassi nel presentare la persona di Gesù e il Suo Vangelo: così l'umanità precipita nelle tenebre della non conoscenza di Dio. Per salvare l'uomo è necessario riportare Dio nel cuore e nella storia dell'uomo. Non sarà il potere mondano a salvare l'uomo, non sarà l'economia a sfamare l'uomo: solo Dio può salvare l'uomo; e Dio, il Dio vivo e vero, entra nella storia percorrendo la via dell'umiltà e della semplicità, dalla grotta alla croce.

Occorre riportare Dio nel cuore degli uomini, aiutare gli uomini a riappropriarsi della propria identità recuperando l'intimità con Dio, così tanto trascurata dal frenetismo e dall'attivismo del nostro secolo.

«Cercare il nutrimento per il cuore è volgersi verso Dio, perché Dio stesso è un cuore che abbraccia tutto. È solo con il cuore che si può conoscere il segreto dell'universo. Chi ha il cuore percepisce Dio, gli uomini, gli animali, la natura. Solo il cuore è capace di dare la pace allo spirito" (P. Ivanov, teologo russo, in La pace in Cristo).

L'uomo "senza cuore" è un uomo senza amore, senza religione, perché in fin dei conti l'ateismo è vivere senza cuore. È atea una politica senza cuore; è atea un'economia senza cuore; è atea una cultura senza cuore; è atea una solidarietà umana senza cuore; è atea una famiglia senza cuore. "Dio è amore", non un sentimento cieco, senza gli occhi della ragione; non è un'emozione illogica, un sorta di tuffo nell'acqua profonda da cui poi non si tira più fuori la testa.

Serve un supplemento di cuore; urge che la verità dell'amore di Dio sussulti nel petto!

Ciò che, in quanto cristiani, dovrebbe preoccuparci, è rendere credibile Gesù Cristo in questo nostro mondo. Ogni oscuramento o tradimento del primato di Dio apre la porta alla disumanizzazione, ad inutili sofferenze umane.

Credere in Gesù Cristo non significa guadagnare un talismano che immunizza la vita umana dalle sofferenze e dalle disgrazie. Conoscere Cristo non significa scoprire un rimedio preventivo, assicurativo, contro i malanni della nostra esistenza presente. La grazia è sempre in segreta simpatia con la sofferenza umana.

Non c'è amore senza passione! Non comprenderemo mai la passione di Cristo fuori dalla passione di Dio (amore appassionato) per gli uomini. Una passione che include anche tutte le sofferenze legate alle non corrispondenze d'amore, che Dio ha patito e continua a patire, più di quanto altro uomo affacciatosi sulla terra abbia mai sopportato.

Gesù è il lato visibile, udibile e tangibile di tutte le Scritture. È una persona viva; è il Vangelo della Vita, che associa al Suo amore di donazione ogni uomo.

 

Dal dolore della croce la gioia della Pasqua

San Paolo, nella sua Lettera ai Filippesi, ci consegna una professione di fede che condensa, con rara bellezza e incisività, il "mistero" del Cristo, che il Padre del Cielo ha voluto associare all'uomo, rendendo Gesù "socio" del nostro soffrire.

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 5-11).

Con la risurrezione di Cristo, i cristiani comprendono e credono che solo la Croce può significare la salvezza dell'uomo. Alla luce della risurrezione di Gesù, il «prendere ogni giorno la Croce» (cf Lc 9, 23) è già l'alba del nostro mattino di Pasqua.

Noi uomini non siamo in grado di far luce sull'abisso della sofferenza umana e della Croce: la fede, sì, può farlo. Dopo la risurrezione del Cristo crocifisso ogni patimento umano può essere condotto alla salvezza; ogni dolore può riposare sicuro nelle mani di Dio; ogni croce per quanto terribile è solo "una scheggia" della Croce del Cristo.

Se l'uomo resta impenetrabile alla luce pasquale, sprofonda nella solitudine con il proprio dolore: nessuna parola, nessun conforto umano, nessuna medicina potranno salvarlo da questo abisso.

Solo la fede in Gesù ci dà la grazia di vedere come ogni giorno la via crucis si fa via lucis, cioè la via lungo la quale lo Spirito di Dio ci fa camminare, assicurandoci pace e gioia, i doni che nessun tormento potrà mai spegnere, perché divini.

Con la Pasqua, Cristo è nostro contemporaneo, sempre, per sempre! Una verità che risuona in ogni nostro giorno terreno, feria di Pasqua, perché fuori dalla sua risurrezione il Cristo non sarebbe più indispensabile all'uomo e al suo destino di amore e di pace.

Nel compiersi della Pasqua tutto il senso è dato: Gesù doveva soffrire, ma non poteva essere vinto dal dolore umano; doveva morire, ma non poteva rimanere morto; doveva stare in mezzo ai suoi, ma non poteva rimanere per sempre con loro.

Guardando alla nostra esistenza umana, infatti, insieme alla croce è la gioia della risurrezione che bussa alla porta della vita degli uomini che soffrono e si affaticano. La gioia dice alla sofferenza: "lasciami entrare". Ma la sofferenza tace, non apre, perché non ha lingua per rispondere, non trova le parole per corrispondere al linguaggio dell'amore.

"Le opere del Signore nostro sono amarezze seguite da dolcezza, tenebre seguite da luce, tristezze seguite da gioia; mentre quelle del mondo sono dolcezze seguite da amarezze, luci seguite da tenebre, gioie seguite da tristezze. Conoscerà la verità colui che avrà gustato queste cose per esperienza personale e non per sentito dire" (Isacco il Siro).

Che cosa ne sarebbe del Vangelo senza la passione e la morte gloriosa di Gesù? I due bracci della croce si uniscono come i due destini, terreno e ultraterreno dell'uomo. La nostra è la religione della croce; della croce gloriosa che regala la gioia. La nostra è la religione della croce e, al contempo, la religione della gioia, perché il volto dell'amore è "due in uno": -naturale e soprannaturale; umano e divino.

Quaggiù, sulla terra, la nostra gioia includerà sempre, in qualche modo, il doloroso travaglio dell'esperienza umana. La gioia sta alla risurrezione come il dolore sta alla croce di Gesù!

La gioia vera, come la croce, è lotta: dobbiamo imparare a conquistarla e ancor più a non smarrirla. Cristo ha sconfitto la morte per regalarci la gioia; noi dobbiamo fidarci di Cristo e, ogni giorno, chiedere a lui il segreto della vittoria. Guai a togliere la croce dalla realtà umana!

Ogni giorno occorre costruire e ricostruire ciò che il male o l'insipienza umana distruggono. Questo è il tempo di rendere presente, vivente, operante la croce di Gesù, nostra gloria e nostra forza. Niente più della tristezza, dinanzi alla croce della prova e del soffrire, alimenta l'ateismo; niente più della tristezza rivela il volto di una Chiesa rassegnata, il volto di cristiani impotenti.

Madre Teresa di Calcutta non si stancava di ripetere alle sue figlie: "Non permettete mai che nulla, neanche il dolore più grande, possa farvi dimenticare che Gesù è risorto". Se la morte è stata vinta, tutto può essere vinto. Se Cristo ha vinto la morte, ogni punto morto della nostra vita può essere vinto.

La vita non è bella o brutta, secondo categorie che ci possano far dire: "se è bella la vivo spensieratamente; se è brutta posso anche toglierla a me stesso o a chi è causa della mia infelicità". "La vita non è bella o brutta: la vita è semplicemente originale" (Italo Calvino, La Coscienza di Zeno). Ebbene Cristo, con la sua croce e la sua risurrezione, è la sola causa di questa originalità per ogni uomo sulla terra.

 

Il Vangelo della sofferenza, cuore della "nuova evangelizzazione"

In un tempo che genera «genitori carnefici di vite indifese» (Sap 12, 6), in cui "il fratello dà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli insorgono contro i genitori fino a farli morire» (cf Mt 10, 21), si avverte il bisogno di obbedire alla parola del Signore: «Se qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele» (1 Tm 5, 8).

La storia della salvezza è la storia della tenerezza di Dio, che ci ha amati e ha dato la sua vita per noi (cf Gal 2, 20). Questo Vangelo della tenerezza rivive nei genitori: essi che un giorno hanno dato la vita ai loro figli, sono spinti ogni giorno dallo Spirito a ridare la vita per i loro figli, nella misura in cui, ogni giorno, "generano Cristo", come affermava S. Ambrogio.

La famiglia cristiana è tenerezza ferita, tenerezza tradita e crocifissa, ma pur sempre e per sempre, con l'Eucaristia, l'ostensione del sacramento della tenerezza divina, del Dio amore. Sì, nella fragile esperienza terrena di ogni famiglia cristiana rivive la stessa fragilità della carne del Figlio di Dio.

I Padri della Chiesa definiscono la famiglia cristiana una "comunità di pazienti", cioè di credenti che non si arrendono al male e condividendo con Cristo il suo fallimento terreno fanno di ogni "croce quotidiana" un anticipo di cielo, una profezia compiuta del trionfo della risurrezione.

La famiglia cristiana è e rimarrà in ogni tempo il migliore "laboratorio di speranza" per la salvezza di un'umanità che dispera, perché malata d'amore.

Solo l'amore, alla fine, rimarrà. Così possiamo dire che la famiglia è orientata al cielo, data per il mondo "senza essere del mondo" (cf Gv 17, 11.16). Mutuando le parole di Gesù davanti a Pilato vorremmo poter dire che "la famiglia cristiana non è di questo mondo" (cf Gv 18, 36). Esiste come profezia per trasformarlo, per testimoniare che "essere di Cristo" significa divenire "bersaglio di ogni contraddizione" (cf Lc 2, 34).

Voglia lo Spirito Santo dilatare i nostri cuori e donarci una nuova cura d'amore per le nostre famiglie. Una famiglia cristiana che vive dello Spirito Santo non perderà mai il coraggio; ogni impresa, come Maria, le sembrerà possibile. Non ci perdiamo d'animo, allora, e facciamo della gioia del Cristo risorto la nostra migliore linfa vitale. Se Cristo ha vinto la morte, tutto può essere vinto. Se Cristo è risorto, tutto può tornare in vita. Questa deve sempre essere la nostra speranza viva!

 

Un segno per le famiglie del mondo: il "Centro Internazionale Famiglia di Nazareth"

Al fine di dare attuazione al Magistero della Chiesa Cattolica relativo alla Famiglia, la Santa Sede ha dato vita alla Fondazione Vaticana "Centro Internazionale Famiglia di Nazareth" (CIFN), affidata al Rinnovamento nello Spirito in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Famiglia, «al fine di dare attuazione al Magistero della Chiesa Cattolica relativo alla famiglia» (art. 1, §1 dello Statuto) e per "costruire il sogno" di san Giovanni Paolo II: una casa, la "casa del Papa" per tutte le famiglie del mondo a Nazareth, dove tutto ha avuto inizio, dove Gesù ha fatto esperienza di una famiglia umana, di una casa, di un lavoro.

Alla Fondazione Vaticana CIFN è dato anche mandato «di promuovere la formazione spirituale e l'evangelizzazione delle famiglie, nonché di sostenere la pastorale familiare in tutto il mondo e, segnatamente, nella Terra Santa» (art. 2, §1).

Una grande sfida, quella di costruire, gestire e animare la "Casa del Papa in Terra Santa", una speciale dimora spirituale per le famiglie di tutto il mondo e un segno di vicinanza concreta e particolare alle famiglie del Medio Oriente, di Terra Santa, memoria vivente e benedetta delle origini del cristianesimo, nella Terra dei nostri Padri nella fede, nella Terra di Gesù, dove troppo sangue continua a scorrere e le famiglie sembrano rassegnate all'impotenza, sottomesse al male e alla morte. 

Un grande progetto che impone senso di responsabilità e spirito di comunione ecclesiale, unitamente a competenze, esperienze, relazioni e amicizie di cui vogliamo avvalerci, con umile e mutua collaborazione, guardando al tanto bene che c'è in tutto il mondo a servizio dell'istituto familiare.

Desideriamo, infatti, che il "Centro Internazionale Famiglia di Nazareth" divenga un luogo privilegiato per la diffusione del "Vangelo della Famiglia", una "vetrina" di tutto il bello, il buono, il vero, il giusto che la famiglia propone e testimonia nel mondo, coinvolgendo attivamente gli Uffici pastorali delle Diocesi del mondo, le Università, i Centri Studi dedicati alla famiglia; i Movimenti, le Comunità, le Associazioni di scopo, tanti benefattori che vedono nel trinomio "Papa, Famiglia, Terra Santa" un'opportunità nuova e interessante per sostenere generosamente la causa della famiglia. In definitiva, una sfida che lanciamo alla nostra coscienza ecclesiale, per dare corso, insieme, alla Nuova Evangelizzazione.

Questo nostro tempo, attanagliato da crisi, invoca un'umanità più fraterna, più a misura di famiglia prima che a misura di Stati e di Mercati. Se una famiglia ci vuole, ne consegue che anche una casa ci vuole! Ecco perché vogliamo che la "profezia di Nazareth" non si spenga nel cuore delle Nazioni.

A Nazareth, luogo dove tutto è cominciato e dove tutto può ricominciare. A Nazareth, dove l'umanità ha conosciuto il modello certamente irripetibile della Santa Famiglia, ma che tutti possono apprezzare e imitare. 

(26.09.2015)