La
nostra storia di coppia inizia nel 1983, quando all’età di 16 anni
ci siamo conosciuti e abbiamo deciso che da quel momento, avremmo
cercato di percorrere insieme la nostra strada.
A
differenza di molti nostri coetanei, che vivevano i loro rapporti
nella fretta e nella superficialità, noi già da allora avevamo
compreso che per costruire un rapporto vero, avremmo dovuto gettare
solide fondamenta.
In quel periodo ognuno di noi frequentava la sua parrocchia, ma dopo
poco tempo, siamo confluiti nella parrocchia dove io risiedevo,
perché ero catechista e anche mio marito ha iniziato a seguire, dopo
qualche anno, un gruppo di ragazzi.
E’ stato un lungo periodo di formazione, che ci ha spinti dopo
qualche anno a cercare di più. Nella nostra parrocchia, in maniera
umile e servizievole, lavorava il RnS che affiancava il parroco
nell’animazione pastorale. Per alcuni anni siamo stati amici di
questi ragazzi, con i quali condividevamo il servizio della
Catechesi, ma nel 1987 abbiamo deciso di partecipare alla preghiera
animata dal gruppo ed abbiamo subito compreso che la nostra
spiritualità, il nostro modo di incontrare il Signore, era simile al
loro, e abbiamo cominciato il cammino.
All’età di 23 anni il nostro rapporto era divenuto maturo al punto
da farci desiderare di sposarci.
I
nostri familiari (specialmente i miei) ci vedevano come i “piccoli
di casa” e pertanto ci hanno guardato con sospetto quando abbiamo
comunicato loro la data del matrimonio, ma noi avevamo chiaro che un
matrimonio cristiano, al pari di una speciale consacrazione, è una
vera vocazione da vivere con tutto l’ardore della giovinezza che ce
l’aveva donata. Abbiamo deciso con entusiasmo e slancio!
Il 13 ottobre 1990 ci siamo sposati, attorniati da tutti i nostri
tantissimi amici, e ricordo che già durante la messa del Matrimonio
ci siamo associati con forza al Sacerdote che chiedeva al Signore di
benedire la nostra famiglia e di allietarla con il dono dei figli.
Appena sposati, poiché io dovevo finire gli ultimi esami e la tesi
per conseguire la laurea in Biologia, avevamo pensato, come fanno
molte giovani coppie, di aspettare un po’ per avere dei figli, ma
dopo circa 8 mesi, decidemmo di affidarci al metodo naturale, senza,
peraltro, rigidità nell’osservanza di giorni, minuti e ore.
Il metodo sembrava funzionasse davvero bene…
Allo
scadere del primo anno, il desiderio di avere un figlio era
veramente forte, e allora con gioia abbiamo deciso che da quel
momento saremmo stati lieti di accogliere quel dono.
I
primi mesi passarono nell’attesa, sorvegliando e condividendo ogni
segnale che proveniva dal mio corpo, ma puntualmente l’attesa
rimaneva tale.
Io ero sicura che i nostri rapporti li avevamo nei giorni fecondi,
perché misuravo la temperatura basale e osservavo tutti i sintomi
connessi all’ovulazione.
Dopo sei mesi decidemmo di andare dal ginecologo, ed iniziò il
calvario di cure ormonali su di me che, oltretutto, si rivelarono
del tutto inutili.
Alla fine il ginecologo comprese che il problema doveva essere un
altro e decidemmo di fare uno spermeogramma.
La diagnosi è stata “severa oligoastenozoospermia” che, in parole
semplici, significa, pochi spermatozoi, non in numero sufficiente
per accompagnare il vincitore ad introdursi nella cellula
uovo e fecondarla. Spermatozoi che erano anche malformati, nella
conformazione fisica.
Da quel momento è iniziata una lunga storia di sofferenza interiore
durata sei anni.
In quel momento, specialmente io, diverse volte mi sono ribellata
contro Dio, non riuscivo a capire perché proprio di noi, ai quali
aveva affidato tanti ragazzi da seguire e accompagnare nel cammino,
Dio non voleva fidarsi per concederci il dono e la responsabilità di
un figlio. Davanti ai nostri perché, alla nostra ricerca, al
tentativo di dare una motivazione biologica al nostro problema, ci
fu detto, candidamente, che si poteva tentare la fecondazione
omologa in vitro, la tecnica ICSI, con buone probabilità di
successo. Noi volevamo risposte sul perché, della patologia,
sulle cause che l’avevano determinata… ma tutti i medici che
incontrammo, nei vari tentativi fatti di ascoltare risposte
illuminate, ci guardavano stupiti… "in fondo – sembravano
dirci -, se avete la soluzione, perché vi intestardite ancora
nel problema?".
E
davanti alle proposte della scienza, dovemmo fare una grande fatica
per ricordarci che non tutto ciò che è tecnicamente possibile,
è giusto dal punto di vista etico.
Ma questa frase bella e giusta, fece una gran fatica a passare dalla
testa e dalle labbra, al cuore.
Capimmo di doverci spogliare di una mentalità precostituita, di
dover iniziare a studiare per capire in che modo venivano effettuate
le tecniche, e soprattutto, guardarle e analizzarle come se lo
avessimo fatto senza essere coinvolti.
Passammo dallo studio delle metodiche a quello dei documenti della
Chiesa e capimmo che ben diceva il Grande Papa, Giovanni Paolo II,
quando parlava di un "ulteriore prezzo da pagare per la
fecondazione artificiale" e lo individuava nella "rimozione
del problema della sterilità e dell’infertilità". "Compito dello
scienziato", diceva, "è piuttosto quello di investigare sulle
cause dell’infertilità maschile e femminile, per poter prevenire
questa situazione di sofferenza negli sposi".
E’ stata questa la sofferenza principale di quegli anni, capire che
nessuno ci avrebbe seguito dal punto di vista della cura, e che la
nostra sofferenza morale potevamo metterla solo nelle mani di Dio,
che doveva aiutarci a capire il senso di quanto ci stava capitando,
e il momento in cui il nostro desiderio legittimo, di avere un
figlio, doveva fermarsi davanti a una nostra incapacità fisica.
Il momento decisivo del nostro “no” fu quello in cui scoprimmo che
per avere maggiori possibilità di ottenere un risultato, dovevamo
creare embrioni in sovrappiù e… congelarli!
A
quel punto noi rifiutammo ogni prospettiva di fecondazione. La
perdita del senso profondo del generare attraverso quel linguaggio
altissimo dell’amore che è l’atto coniugale, e generare solo in seno
a questo… la crioconservazione, cioè il congelamento degli embrioni
sovrannumerari, erano come baluardi inaccessibili ed inaccettabili
per il nostro modo di intendere l’essere madre e padre.
Questo pensiero ci risultò così aberrante che quello fu il momento
ed il luogo in cui Dio ci ha dato di comprendere che una strada
simile non sarebbe mai stata la nostra, perché egli ha disposto,
attraverso la natura che ci ha dato, che i figli nascano in un luogo
umano (il corpo della mamma), attraverso un gesto umano, il più
bello, carico di significato, di amore e gioia.
Altro che provette e tecniche artificiali! Il corpo umano è l’unico
luogo adatto all’altissima dignità che ha la persona nascente. Ogni
altro luogo, intacca questa dignità.
Dio, per noi, aveva un altro progetto. Lo capimmo piano piano,
quando cominciammo ad aprire la nostra casa a bambini in situazioni
familiari difficili, che venivano a stare con noi, solo per i fine
settimana. Da lì ad aprirci all’idea dell’adozione, il passo era
logico e consequenziale, ma non fu né scontato, né immediato.
La preghiera, l’amicizia con persone capaci di guidarci e
consigliarci, fecero quel passo. Intuimmo che il nostro desiderio di
genitorialità era del tutto naturale e perseguirlo era necessario
per la nostra vita. Quando fummo interiormente sicuri, che
l’adozione non era, per noi, la sostituzione di una maternità e
paternità fisica impedita, decidemmo di intraprendere questa via.
Nel 1996 abbiamo iniziato le pratiche per l’adozione internazionale
e un anno dopo ci siamo recati in Romania dove abbiamo abbracciato
il nostro figlio primogenito che, oggi, ha quasi dieci anni. Nel
2000, in maniera del tutto imprevista, la sorellina ha bussato alla
porta della nostra casa e, con gioia, dopo aver superato, con
l’aiuto della Provvidenza, alcune difficoltà economiche, abbiamo
accolto la nostra bimba che aveva solo dieci mesi, e compirà sei
anni nel mese di giugno.
Quando pensiamo ai loro sguardi spauriti dei primi tempi e li
confrontiamo con gli occhi sereni, pieni di gioia e di vita che
hanno oggi… benediciamo la sterilità di ieri, che ci ha condotti
alla fecondità di oggi.
C’è chi dice che la fecondazione è il modo di soddisfare il
legittimo desiderio di una coppia di avere un figlio.
Ma se c’è un desiderante – i genitori – e un desiderato
– il figlio -, forse la dignità fra i primi e il secondo non è
proprio messa sullo stesso piano. Se c’è un soggetto desiderante,
forse non sarà che il figlio è ridotto ad oggetto desiderato? E’
legittimo desiderare un figlio, ma non come mero appagamento di un
desiderio.
Ancora: questo “legittimo desiderio” è inteso come un diritto da
ottenere ad ogni costo. Ma, volendo restare sul piano dei desideri,
c’è un desiderio più grande, desiderio che è come un grido, ed è
quello dei figli che abbiamo visti e conosciuti, in attesa di avere
un papà e una mamma.
Sono i figli… in attesa! Che è altro dell’attesa degli aspiranti
genitori. Se di diritto si vuole parlare, c’è un diritto prioritario
che è quello di questi piccoli, che già esistono, che già attendono
risposte, braccia, occhi, cuori accoglienti.
Ma noi siamo qui per parlare non di diritto ma di dono. E forse,
neanche di dono, ma di frutto del dono! Il dono c’è già, è la nostra
relazione, cementata con la grazia del matrimonio, ed è… sempre
feconda! Anche quando non ci sono i figli, la coppia ha in sé, la
grazia, la potenzialità dell’essere padri e madri. Si può essere
padri e madri in tanti modi – lo sappiamo -, ma non si può essere
figli senza sentirsi generati, radicati e confermati in un volto e
una presenza cui dire: "mamma… papà!".
Allora: i figli sono frutto, frutto del dono di sé all’altro, dono
d’amore che ci scambiamo. E i frutti… si attendono.
Vale la pena soffermarci su questa parola – l’attesa -, perché, ci
sembra, scaturiscono tanti fraintendimenti, da un’incapacità di
fondo, di coglierne il valore più vero, il simbolismo più profondo.
Secondo noi, un punto importante è questo: viviamo in una società
che ha perso il senso dell’attesa. Non sa più attendere. Questa cosa
si può fare? Si può fare subito? E allora perché non farla? Oggi si
ragiona così.
Invece… attendere non è avere! L’attesa ha in sé il senso
dell’eterno. E’ Dio che compie la nostra attesa! Si attendono i
frutti degli alberi, certi che verranno… Ma si rimane aperti, anche,
alle stagioni di magra, le stagioni dove i frutti tardano o non
vengono affatto.
Noi abbiamo contemplata la possibilità che un figlio atteso… avrebbe
potuto non venire… e l’abbiamo accettata… ma questo non per un senso
di limite o per imporci un giogo da portare…
Semplicemente: ci sentiamo collaboratori di Dio, e con tutti gli
uomini… collaboratori della creazione… Ma riconosciamo che l’unico
Creatore, è Lui… è Lui, l’Unico che crea, che dispone i tempi e i
modi…e abbiamo voluto lasciarglielo fare.
Il Signore, per noi, ha trovato un’altra strada, una strada lontana,
e a compimento di un profondo periodo di preghiera, con il profeta
Isaia, ci ha detto: "viene dall’Oriente l’uomo dei miei progetti"…
noi… abbiamo semplicemente accolto!
Alleluia e lode al Signore per i Suoi benefici e per la fiducia che
ha riposto nella nostra povera capacità di accoglienza!
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